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Voci dallo spogliatoio” vuole essere uno spazio dedicato al confronto, alla riflessione e alla condivisione di idee. Proprio come lo spogliatoio è il cuore pulsante di una squadra, dove le strategie prendono forma e si rafforzano i legami, così questo blog sarà il punto di partenza per approfondire le tematiche più attuali e stimolanti del settore sportivo, attraverso articoli e approfondimenti scritti dagli studenti  e dalla Faculty di MASPES.

Buona lettura!

L’occupazione femminile nei ruoli di governance dell’industria sportiva italiana. 

A cura di Ginevra Bozzoni. Studente Master MASPES II edizione

 

Dal 2006, ogni anno il Global Gender Gap Report[1] formalizza lo stato attuale della parità di genere in 146 paesi diversi (40 europei), considerando quattro dimensioni: la partecipazione e le opportunità economiche, l’istruzione, salute e sopravvivenza e l’empowerment politico di ambo i sessi. Nella sua ultima edizione l’Italia si è distinta negativamente posizionandosi all’87esimo posto, nonché al 37esimo a livello europeo, scavalcando solo l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Turchia.

Considerando il mercato del lavoro in Italia, i settori in cui storicamente si registra una presenza femminile limitata sono quelli legati alla tecnica, alla produzione e alla leadership/gestione. Questo dato si potenzia ulteriormente se si considera un’industria come quella sportiva, da sempre dominata dagli uomini, e quindi percepita come “maschile”. Questa visione viene pienamente supportata dai dati: le dirigenti di società sportive sono il 15,4% contro l’84,6% degli uomini. A livello federale, invece, le donne occupano solo il 12,4% dei ruoli dirigenziali. Un esempio concreto emerge dalle 45 federazioni sportive affiliate al CONI, il Comitato Olimpico Nazionale Italiano, tra le quali solo la Federazione Italiana Danza Sportiva e la Federazione Italiana Giuoco Squash sono guidate da donne (rispettivamente, da Laura Lunetta e Antonella Granata).

La percezione dello sport come di “dominio maschile” e gli stereotipi sulla leadership femminile, spesso considerata meno autorevole di quella esercitata dai colleghi uomini, figurano sicuramente nella lista di cause della sottorappresentazione femminile nell’ambiente sportivo. Questi fattori contribuiscono insieme a creare (o meglio, preservare) un settore professionale tipicamente ostile per le donne, sostenuto da una struttura caratterizzata da norme e valori che inevitabilmente producono asimmetrie e discriminazioni a discapito del genere femminile. A questa lista si aggiunge anche un accesso non equo per uomini e donne alle stesse opportunità professionali, soprattutto in termini di formazione, di conseguenza gli uomini accedono più facilmente ai ruoli di management, mentre le donne tendono a fermarsi a ruoli di supporto o di tipo amministrativo. Infine, un altro aspetto da non sottovalutare è la natura “amatoriale” e statica del contesto lavorativo sportivo, dove vi è una evidente tendenza a reimpiegare determinate risorse, in particolare ex-atleti professionisti, che a fine carriera vengono posizionati in ruoli dirigenziali nonostante non siano supportati da studi tecnici e conoscenze settoriali (se non quelle acquisite sul campo, altrettanto di rilievo). Questa propensione limita inevitabilmente il flusso di nuove idee e attitudini, e pone anche un ulteriore ostacolo all’accesso delle donne al settore sportivo e ai suoi ruoli di vertice.

Alla base di queste condizioni vi è sicuramente una componente di sessismo, che purtroppo è profondamente radicato nella società contemporanea e si riflette senza dubbio nelle logiche del lavoro e aziendali, trovando un terreno ancora più fertile in un settore storicamente dominato da modelli maschili di forza e virilità. E se fossero le donne ad autoescludersi dal mondo dello sport? Subire discriminazioni, micro-aggressioni e sessismo diffuso, insieme alla sensazione di non essere rispettate né valorizzate, può spingere inevitabilmente le ragazze giovani che si avvicinano a questo ambiente a fare un passo indietro, preferendo percorsi professionali che appaiono più accoglienti in termini di genere.

Tra le iniziative volte a rompere questo schema e favorire l’ingresso delle donne alla dirigenza delle istituzioni sportive italiane figura, per esempio, quella promossa dal CONI nel 2018. Con l’introduzione delle cosiddette “quote rosa” (o “quote anti-discriminazione di genere”), almeno il 30% dei componenti dei consigli federali dovrebbero essere di sesso femminile. Per garantire il rispetto di questa disposizione è stata anche istituita una commissione incaricata di supervisionare i processi di attribuzione delle cariche e individuarne eventuali criticità proprio per salvaguardare la parità di genere. Rispetto al quadriennio olimpico precedente all’introduzione di questa misura (Principio 5.1.5 de “Principi fondamentali degli statuti delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline Associate”), nei consigli delle federazioni la presenza femminile è aumentata notevolmente: dalle 57 consigliere si è passati a 137, e 13 sono le donne al momento vicepresidenti. Lo stesso CONI ha premiato le federazioni che hanno fatto e continuano a fare progressi concreti in questo campi, offrendo, per esempio, corsi di formazione esclusivi e opportunità di networking alle donne interessate alle cariche dirigenziali. Per coloro che, invece, non hanno raggiunto tale obiettivo, sono stati stabiliti dei piani di azione e possibili sanzioni. In particolare, alcune federazioni, come quella calcistica e automobilistica, faticano a rispettare questa quota. Le ragioni sono molteplici: queste discipline hanno una lunga tradizione dominata dagli uomini, che fortifica la resistenza ad un cambiamento radicale che è quello della ricomposizione delle dirigenze. Inoltre, in alcuni casi, non ci sono abbastanza donne con esperienza o formazione adatta per occupare ruoli di vertice, soprattutto nei settori più tecnici o amministrativi, per le ragioni già illustrate.

Tuttavia, il dibattito sull’equità delle quote rosa rimane aperto. Uno schieramento vede quest’ultime come uno strumento disparitario volto a combattere la diseguaglianza, aprendo un’ulteriore discussione sulla meritocrazia di uomini e donne seduti allo stesso tavolo. La soluzione ideale sarebbe quindi intervenire con la stessa determinazione sulla struttura di molti sport, promuovendo l’inclusione delle donne già a partire dai luoghi di pratica. Offrendo opportunità alle bambine e alle ragazze, sport storicamente maschili potrebbero espandersi non solo in termini di giocatori e affiliati, ma anche, e soprattutto, a livello di industria e visibilità. Ciò stimolerebbe anche l’interesse femminile, favorendo così un maggiore coinvolgimento anche a livello professionale e lavorativo. Questa visione si scontra con quella di chi, invece, ritiene che le quote rosa siano uno strumento fondamentale per promuovere la parità di genere nel mondo del lavoro sportivo. Secondo questa prospettiva, il cambiamento deve e può partire necessariamente dai vertici delle istituzioni, e garantire la presenza femminile in ruoli decisionali è essenziale per sollecitare e favorire tali iniziative.

In conclusione, il desiderio e la sfida di ricostruire la struttura del settore sportivo italiano per favorire la partecipazione della popolazione femminile, soprattutto nei ruoli di governance, non deve appartenere solo alle donne ma, al contrario, è fondamentale anche la partecipazione degli uomini, i quali possono loro stessi giovare di queste riforme (anche se il beneficio personale non dovrebbe essere l’incentivo principale alla stimolazione di questo cambiamento), in quanto la collaborazione e la condivisione dell’obiettivo sono tra gli ingredienti imprescindibili per concretizzare questa evoluzione.



[1] Global Gender Gap Report 2024

https://www.weforum.org/publications/global-gender-gap-report-2024/global-gender-gap-2024-dashboard/